sabato 14 gennaio 2012

Con te amico, Capitolo II


“Quando si è visto una volta sola
lo splendore della felicità
sul viso di una persona che si ama,
si sa che per un uomo non ci può essere altra vocazione
che suscitare questa luce
sui visi che lo circondano”.
(A. Camus)
Il viaggio proseguì tranquillamente. Con sua enorme sorpresa, Cristina si accorse di essere entrata nella stazione di Lamezia Terme in perfetto orario: “Finalmente a casa” pensò. Cominciò a tirar giù dal portabagagli le pesanti valigie che aveva portato con sé; ripose il sacchetto del pranzo nello zainetto; si sistemò i capelli; si deterse il viso con una salviettina umidificata; indossò la giacca e si avviò nei corridoi, in attesa  di scendere. Sentì un brivido percorrerle la schiena: emozione o paura? Non riuscì a decifrare per bene quelle sensazioni, sapeva solo che stava tremando e, certamente, non era per il freddo. Ecco, adesso le porte si stavano aprendo, cinque persone davanti a lei stavano scaricando, uno ad uno, tutti i bagagli per poi scendere: adesso era il suo turno. Proprio nel momento in cui stava portando giù le valigie, vide un uomo avvicinarsi: aveva i capelli bianchi, ma i tratti del suo volto erano rimasti inalterati: “Papà! - gridò, lasciando cadere il bagaglio e gettandogli le braccia al collo - Come stai? Ti trovo bene! E la mamma, dov’è la mamma?”. Con lo sguardo cercava di scorgerla tra la gente fino a quando i suoi occhi si posarono sulla figura eretta della madre. Anche lei era rimasta la stessa: solo qualche ruga in più, testimone del tempo che trascorreva. Corse verso di lei, incurante del fatto di aver lasciato le valigie davanti la porta del treno, ostruendo il passaggio ai viaggiatori. “Sei sempre la stessa - la rimproverò dolcemente la mamma che, intanto, stava piangendo dalla gioia - vai a prendere le valigie prima che qualcuno cada e si faccia male”. Raccolte, dunque, le sue cose, il terzetto si diresse verso la macchina chiacchierando allegramente del più e del meno. “Fa freddo a Milano? La vita è sempre cara? Ed in ospedale come ti trovi? Perché non vedi se riesci a trovare anche qui una sistemazione, così ti eviti di stare tutta sola all’altro capo del mondo?”. “Eccoli qua, dunque, mamma e papà, con i loro soliti discorsi, le loro solite preoccupazioni, le loro solite raccomandazioni... non cambieranno mai! - così pensava Cristina mentre, con la macchina, si apprestavano a tornare a casa -  Ho ormai compiuto trent’anni e mi trattano ancora come una bambina: la piccola di casa”. Non aveva avuto fratelli né sorelle e, pertanto, era sempre stata coccolata fino all’inverosimile. Viziata da nonni, zii e genitori, Cristina era cresciuta in un ambiente dove forte si respirava l’armonia familiare. Adorava la sua famiglia e mai avrebbe pensato di doversene separare. Il suo pensiero tornò indietro di qualche anno, soffermandosi sul ricordo, a lei molto caro, delle feste in cui tutti i parenti si riunivano. Tre generazioni si ritrovavano, in quelle occasioni, a banchettare e festeggiare insieme compleanni, onomastici, anniversari, domeniche, Natali.... già, i Natali! Quanti ne avevano trascorsi insieme, ben ventisette. Dei primi non ricordava nulla, se non qualche piccolissimo flash-back in cui rivedeva il suo adorato nonnino nell’arte di preparare il Presepe. Sembrava un rituale: lo allestiva nel grande salone dove veniva, opportunamente, sistemato un  tavolo di grosse proporzioni che occupava l’intera parete sotto la finestra. Accanto ad esso, era messo un tavolino più piccolo dov’erano appoggiate due bacinelle: una contenente vernice marrone e l’altra contenente colla liquida e calce. Lì vicino, impilati ordinatamente, numerosi fogli di giornale che aspettavano di essere appallottolati e sottoposti al trattamento. Si rivedeva piccina, accanto al suo caro nonno, che allora le sembrava un gigante, ad osservare la cura con cui si succedevano le varie fasi: per prima cosa, venivano strapazzati i fogli che, ridotti a delle palle rudimentali, venivano passati prima nella colla e poi nella vernice; quindi venivano adagiati sul tavolo grande e modellati fino ad assumere la forma delle montagne. Terminata quest’operazione, si procedeva alla sistemazione delle casette e dei pastori. In alto venivano sistemati i soggetti più piccoli, con grande meraviglia di Cristina che, a  quattro anni, non poteva sapere nulla riguardo ai giochi di prospettiva. Man mano che si scendeva, i pastorelli si facevano più grandi e nelle casette cominciavano ad intravedersi persino le luci: “Nonno, come fanno ad entrarci le persone in una casetta così piccola?”, aveva chiesto una volta afferrando una di quelle scatolette illuminate, rischiando di fare saltare l’impianto. E poi, come dimenticare il magico momento, la notte di Natale, della deposizione del Bambinello nella mangiatoia: il più piccolo della famiglia doveva passare fra tutti i parenti con in mano quella minuscola culla, contenente Gesù Bambino, stando bene attento a che tutti baciassero quel bambolottino. Quell’anno, la scelta del “più piccolo” era tra lei e il suo cuginetto: si optò per lei, non fosse altro che per evitare i pianti che ne sarebbero seguiti. E così, allo scoccare della mezzanotte, mezza addormentata, si ritrovò a camminare per il grande salone, porgendo a tutti il suo fagottino per poi, insieme al nonno, adagiarlo nella grotta, dove S. Giuseppe e la Madonna lo stavano attendendo. “Cristina? Che fai? Sogni ad occhi aperti? Guarda che siamo arrivati!”. Tornata in sé, rivide le immagini familiari, ma sempre più lontane, della sua casa: un palazzotto, dalle mattonelle marroni, che fronteggiava il mare. Già, il mare... “Mamma, scendo un attimo in spiaggia! Voglio vedere se tutto è rimasto per come me lo ricordo”. Ed era, proprio, rimasto tutto inalterato: le barche sulla spiaggia in attesa della bella stagione per poter, nuovamente, tornare in mare per la pesca; la spiaggia perlata, a tratti insudiciata dai rifiuti dei soliti vandali; i gabbiani, a pelo d’acqua, che facevano a gara per procurarsi il pranzo; e poi il sole, splendente su quell’azzurro cristallino, che creava strani e abbaglianti giochi di luce. Il tempo aveva deciso di fermarsi in quel ridente paesino del Sud e Cristina gliene fu profondamente grata. “Vi è una prodigiosa forza salutare nella natura. Spesso lo spettacolo di un bel cielo al tramonto, che fiammeggia come una promessa; di una fulgida stella, la quale sembra portare un saluto della vita anteriore, l’odore di un fiore, che parla della primavera e della resurrezione, ridà all’anima oppressa la speranza e il coraggio della vita” (Sophie Verena). Si voltò a guardare i suoi genitori, intenti a scaricare i bagagli dalla macchina. Corse verso di loro piena di euforia e gioia e, abbracciandoli con calore, si diresse verso casa. “Quanto mi siete mancati... - disse più a se stessa che a loro, mentre una lacrima le rigava il viso - Vi voglio bene!”.

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